[418] PER UN SACCO DI PATATE
Vita e morte nella povertà
Montebello, giugno 1937. Il sole illuminava le campagne venete, distese di terra coltivata che sembravano promettere abbondanza. Ma per molti, quelle promesse restavano vuote. In un’epoca in cui il regime fascista celebrava la pacificazione sociale e l’ordine, la miseria mordeva più forte della fame nelle case della povera gente.
Le campagne del Veneto erano luoghi di fatica e di privazioni. A Montebello, come in tanti piccoli centri della regione, si viveva con poco, spesso con “quello che passava il convento”. Quando il lavoro mancava, e capitava di frequente, non c’era alcun appiglio. Chi aveva debiti con il “casolin” o il “fornaro” non poteva più contare su un credito. Senza “schei” e senza prospettive, la gente cercava disperatamente una soluzione.
Tra queste famiglie in difficoltà c’era quella di un uomo giovane, padre di tre bambini e marito devoto, che abitava con la moglie in una modesta casa al Castelletto. La fame era una presenza costante, un’ombra che non lasciava scampo. Ogni giorno era una battaglia contro la disperazione e con il tempo anche la dignità cedeva sotto il peso delle necessità più urgenti.
In una notte di giugno, il giovane padre si arrese alla necessità. Non era un ladro, ma un uomo costretto a fare ciò che il cuore gli diceva essere giusto: procurare cibo per i suoi figli affamati. Il campo di patate, vicino alla grande fattoria del paese, sembrava una speranza concreta. Così, con un sacco di juta in mano e il cuore pesante, si avviò lungo una stradina di campagna, nella speranza che il buio gli offrisse protezione.
Arrivato sul posto, si mise al lavoro. Le mani, forti ma stanche, scavarono nella terra umida, riempiendo il sacco di patate. Ogni patata era un pasto, una promessa di conforto per i suoi bambini. Ma il suo gesto non passò inosservato.
Il castaldo, il custode della proprietà terriera, era sempre all’erta. Armato e inflessibile, vigilava sui campi per proteggere gli interessi del padrone. In quegli anni, la proprietà privata era sacra, e chi osava sfidarla, fosse pure per necessità, veniva trattato come un criminale.
Il castaldo notò la figura dell’uomo tra le piante di patate e non esitò. Impugnò il fucile e sparò due colpi. Non vi fu alcun avvertimento, nessuna possibilità di fuga. L’uomo si accasciò, colpito mortalmente. La terra, testimone silenziosa, si tinse di rosso.
Quando il sole sorse, la luce rivelò un quadro terribile. Sul terreno, tra le file ordinate delle piante, giaceva il corpo senza vita del giovane padre. Un sacco vuoto copriva in parte il cadavere, mentre a pochi metri di distanza un secondo sacco, quasi pieno di patate, sembrava raccontare la sua storia.
La notizia si diffuse rapidamente nel paese. Gli abitanti di Montebello accorsero sul posto, percorrendo la polverosa strada di campagna vicino al ponte sull’Acquetta. Uomini e donne si fermarono a osservare in silenzio, colpiti da una scena che parlava di fame, disperazione e ingiustizia.
Le autorità giunsero solo più tardi, quando il sole era già alto nel cielo. I carabinieri esaminarono il corpo, presero atto del sacco pieno di patate e arrestarono il castaldo. Ma per il custode, la prigione sarebbe stata breve. Aveva “difeso la proprietà”, e questo bastava per assolverlo agli occhi della legge.
Il giovane padre, invece, non avrebbe ricevuto alcuna giustizia. La sua morte veniva archiviata come un effetto collaterale di un furto, mentre la sua famiglia restava sola a piangerlo. La moglie, rimasta vedova, si trovò con tre bambini da crescere e nessuna risorsa. Forse qualche parente o vicino avrebbe offerto un po’ di sostegno, ma in un paese povero come Montebello, anche la solidarietà aveva i suoi limiti.
Questa tragedia non era un caso isolato. L’Italia degli anni Trenta viveva sotto la rigida disciplina del regime fascista, che si vantava di aver portato ordine e stabilità al Paese. La propaganda dipingeva Mussolini come un leader forte, capace di guidare l’Italia verso la grandezza. Ma per i poveri, specialmente nelle campagne, la realtà era fatta di miseria e sfruttamento.
Il Veneto, con le sue vaste distese agricole, era una terra di disuguaglianze profonde. I grandi proprietari terrieri concentravano nelle loro mani immense ricchezze, mentre i contadini e i braccianti vivevano alla giornata. Chi perdeva il lavoro si trovava senza alcuna protezione, abbandonato a sé stesso in un sistema che favoriva i ricchi e puniva i poveri.
In questo contesto, ogni piccolo gesto di ribellione, come il furto di un sacco di patate, veniva punito con severità. La vita umana valeva meno della proprietà, e chi violava questa regola pagava un prezzo altissimo.
A Montebello, la morte del giovane padre non fu dimenticata. Per la comunità, rappresentava una ferita aperta, un simbolo dell’ingiustizia che dominava la vita dei poveri. Gli abitanti sapevano che quel gesto disperato era stato compiuto non per avidità, ma per amore: un padre che aveva cercato di nutrire i suoi figli e che per questo aveva perso tutto. La gente continuò a vivere, perché non c’era altra scelta. Ma il ricordo di quella tragedia rimase vivo, un monito per chiunque si trovasse a sfidare un sistema che non lasciava scampo ai più deboli.
Oggi, il Veneto è una terra diversa, ma le ombre di quel passato non sono scomparse del tutto. La storia del giovane padre ci ricorda quanto sia importante custodire la memoria di chi ha sofferto e lottato.
La sua morte non fu vana. È un simbolo della resistenza silenziosa di chi, nonostante tutto, cercava di sopravvivere con dignità. Un monito per non dimenticare che dietro ogni vita spezzata c’è una storia di speranza, sacrificio e amore.
Umberto Ravagnani
IMMAGINE: Ricostruzione di fantasia dell’episodio (realizzazione grafica Umberto Ravagnani).
BIBLIOGRAFIA: A.Maggio – L.Mistrorigo, “Montebello Novecento”, 1997.
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« Sono Elisa Longarato e ringrazio Elena Bellina (New York University) e Giorgia Alù (Sidney University) per l’invito. È un onore per me partecipare a questo incontro. Mi scuso in anticipo per il mio pessimo inglese.
