20 Novembre 2015: IL PROF. LUIGI ZONIN PRESENTA IL SUO LIBRO “SE IL VINO E’ PANE”
Ho sempre immaginato che a Gambellara il vino fosse qualcosa di speciale e fuori dal comune, che potesse essere anche cibo, medicina, trasgressione, lavoro, schei, pane … lo fu dal Medioevo per generazioni di contadini cresciuti in mezzo alle viti schiave e alle garganeghe del Monte, segnati sul volto e sulla pelle dai lavori stagionali, dalle carestie o dalla peste, ma anche benedetti da una natura singolare e da un vino profumato e delicato. Il calendario della mia infanzia veniva scandito dai lavori del ciclo del vino, che occupavano quelli di casa mia per gran parte delle stagioni; c’erano anche altre attività che animavano allora contrà S. Marco, come i cavalieri e i morari, l’erbaspagna, la sparesara, il frumento e la mietitura, il sorgo da zappare, il tabacco, la stalla ed il filò con le storie seducenti raccontate nella penombra tra giochi, chiacchiere e terzetto (rosario) nelle sere invernali; ma sopra tutto questo c’era la presenza intrigante delle viti e della cantina che in ogni momento dell’anno coinvolgeva bambini, vecchi e adulti. Ci addormentavamo con le orazioni fissando i picai di garganega appesi sopra i nostri sogni e ci svegliavamo all’avemaria con i grappoli intoccabili, destinati al Recioto e al vin Santo, che si muovevano appena sulle nostre teste; ci aspettava la scuola, per gli altri di casa c’era la potatura, bisognava preparare le stroppe, raccogliere la legna, far la punta ai pali, curare le bestie, travasare il vino, portare il “toga” degli scavi sotto le pergole del monte e sbrigare mille altre faccende proprie di quel mondo contadino scomparso. Di mattina la scuola comunale (passando per la chiesa) era tutto il nostro mondo e mai nulla ci avrebbe consentito di disertarla, neanche il giorno eccitante del mas’cio, della festa di S. Lucia o della mosta solenne dei picai; i pomeriggi erano un’altra cosa e tutti quanti si davano un gran daffare con piccoli lavori nella stalla, a togliere la corteccia dalle sgreve (i pali di acacia o di castagno destinati alle testate del vigneto), a dare una mano al monte o in campagna, sollecitati dai rimproveri di zia Giustina appena accennavamo ad interromperli per qualche gioco di stagione più allettante. Ho sempre pensato che il vino a Gambellara fosse prezioso come il pane quotidiano, convincimento che è fuori di ogni dubbio, anche se in Campagna comune (la pianura) o sul monte (la collina) il frumento con gli altri grani “minori” rappresentò una coltura importante ed insostituibile per la povera economia di sussistenza dei nostri contadini; ma fino ad anni recenti era attorno all’uva e al vigneto che si svolgeva la vita di tante famiglie, cadenzata da un anno all’altro dai lavori incessanti e senza respiro richiesti dal vigneto e dalla caneva: la potatura, la raccolta della legna, la vangatura e zappatura delle pergole in tempo per i primi trattamenti con zolfo e verderame; e poi, mese dopo mese, gli stessi cicli fino alla vendemmia, la mosta, i travasi, il torcolo, le graspe, i vinaccioli stesi al sole ad asciugare sulle “scalette” della chiesa (per l’olio) e, dopo la raccolta delle olive, di nuovo la potatura e la terra degli “scavi” sotto le pergole del monte. Era una spirale frenetica di lavori interminabili, intersecati da quelli non meno gravosi della pianura (per il frumento, il tabacco, il fieno, la mietitura), che s’incrociavano con le feste religiose e le calamità meteorologiche come la siccità e le grandinate estive, con l’ancestrale paura di perdere i raccolti. Ricordo con rimpianto la mia prima adolescenza, quando in collegio confrontavo la mia esperienza di campagna con quella dei miei compagni: non ho mai incontrato nessuno che mi raccontasse una vita contadina così intensa; certo il sorgo o il tabacco della bassa, il frumento, il fieno o le pergole di clinto occupavano moltissimo le famiglie dei miei coetanei, prese anche loro dalle fatiche della stalla, dai cavalieri, dai problemi dell’irrigazione o dai lavori stagionali, ma nessuno poteva competere con quelli che raccontavo io indicandoli con una punta d ‘orgoglio e con qualche competenza, lasciando intravedere tuttavia quanta fatica ci fosse dentro un buon bicchiere di vino di qualità (dalla Presentazione del libro “Se il vino è pane” di Luigi Zonin).
( L. 116 )